L'itinerario sul Noir parte da un progetto realizzato nel 2008 dal
Comune di Forlì per la serata di 'trekking urbano' che si
svolge ogni anno nel mese di ottobre. Il tour si articola
in 10 luoghi nel centro di Forlì che hanno fatto da sfondo a
misteri, agguati e sanguinose vendette.
Rocca di Ravaldino - Chiesa di Ravaldino - Piazza Saffi - via
Maroncelli - via Moroni - Piazzetta XC Pacifici
Itinerari dettaglio
Il primo di questi episodi riguarda
Sinibaldo(1), unico figlio del Signore di
Forlì, Pino III Ordelaffi. Da qualche parte
nella Rocca di Ravaldino si trova il suo corpo di bambino di
dodici anni, morto in circostanze misteriose nel luglio del
1480. Il padre era morto nel febbraio di quell'anno
e la vedova, Lucrezia Pico della Mirandola, si era barricata nella
Rocca nel tentativo di conservare la reggenza per quel figlio (non
suo). I fratelli del marito defunto, in esilio da
14 anni, nel tentativo di recuperare la signoria assediarono la
Rocca di Ravaldino. Contro di loro Papa Sisto IV
aveva mandato un esercito e i fratelli Ordelaffi l'8 luglio
accettarono una forte somma di denaro in vitalizio per rinunciare
all'assedio. A quel punto si sparse la notizia
della morte di Sinibaldo e di conseguenza decadde il diritto alla
reggenza di Lucrezia che dovette cedere la Rocca a Sisto
IV. Non ci sono notizie di funerali e sepolture ed
il corpo non fu mai trovato e forse cercato. Forse perché
avrebbe potuto svelare una verità
sgradita. Forlì era già da tempo
promessa dal Papa al nipote, Gerolamo Riario, e Sinibaldo, da morto
così come era stato da vivo, non avrebbe costituito che un
intralcio.
Ripartiamo dalla Rocca e percorrendo Corso Diaz, giungiamo alla
Chiesa di Ravaldino dove di trova il crocifisso (2)
che, tra Sei e Settecento, veniva utilizzato in occasione delle
condanne a morte. Retto dal religioso (il
confortatore) che doveva badare alla salvezza dell'anima del
morituro, il crocifisso precedeva questi verso il patibolo fino
all'ultimo istante di vita, così che si può davvero
dire che l'austero crocifisso è l'ultimo oggetto terreno che
videro diverse decine di sventurati. Giungiamo ora
in Piazza Saffi dove il 1° maggio del 1282 i soldati
della ghibellina Forlì, comandati da Giudo da Montefeltro,
sbaragliarono, in uno scontro assai cruento, il fior fiore
dell'esercito composto da francesi e guelfi italiani, inviato dal
pontefice Martino IV a sottomettere la ribelle Forlì, che
così meritò la citazione dantesca di sanguinoso
mucchio(3). ['La terra che fè già
la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio' - Dante, Inf.
XXVII, 44]. I caduti vennero onorevolmente
sepolti, grazie all'intervento dei Battuti Neri, in una grande
fossa comune e a ricordo, fu eretta una cappella, la Crocetta, in
posizione quasi frontale rispetto all'attuale via
Allegretti. La Crocetta venne demolita nel 1616 per
ordine del legato pontificio, probabilmente al fine di eliminare un
monumento ormai vecchio e ingombrante, comunque senza il consenso
della civica magistratura e col vivo malcontento della popolazione.
Il leone, scultura che era presente nella cappella, è forse
da riconoscere nel monumentale masso conservato all'interno
dell'abbazia di San Mercuriale, all'inizio della navata
destra.
Dove si moriva a Forlì 'O meglio: dove, a Forlì, la
morte era pubblica, era ostentata, era scenografia del potere e
rito collettivo?' Quasi sempre in Piazza Saffi (4). Per
lunghi anni la piazza grande fu il luogo in cui avvenivano le
esecuzioni capitali: accadeva allora che una folla vociante,
curiosa, feroce si accalcasse attorno al disgraziato ed al boia
che, più o meno davanti al palazzo comunale, fissava
il ceppo per la decapitazione. Le scene raccapriccianti non mancarono, ma forse nessuna fu
più atroce della difficile decapitazione di Tommaso di ser
Filippo (11 dicembre 1432) il quale, affidato ad un carnefice
inesperto, ricevette quattordici colpi di mannaia prima di
morire. Un altro clamoroso, orrendo fiasco accadde
il 19 marzo 1801, quando, sempre in piazza, fu allestita per la
prima volta in città la ghigliottina, costruita dal
bolognese Giuseppe Berti. I due condannati, rei
d'omicidio, erano tali Miglietti e Brunini. Questi
fu il primo a mettere il collo nella lunetta, ma la lama per tre
volte si abbatté sulla nuca dell'infelice senza staccarne la
testa, così che il turpe lavoro fu finito col coltello, tra
le urla d'orrore della folla e quelle del povero Brunini che veniva
scannato come un maiale. Il Miglietti, vista la
pessima prova della ghigliottina, venne fucilato ed il Berti,
maldestro autore di quel lugubre trabiccolo, si prese tre mesi di
galera.
Spostandoci in via Maroncelli, al n° 54, si trova Palazzo
Malmesi (5) il teatro del più lugubre e noto 'fatto di
sangue' di Forlì. Alberto Malmesi e la
fidanzata Dionilla Dal Pozzo erano scomparsi dal dicembre 1914. Si
parlò di fuga romantica o di un improvviso cambio di
città. Nel marzo 1915, un ragazzino affermò di aver
visto trasportare dalla latrina di via Maroncelli due grossi
involti, simili a tappeti arrotolati da uno dei quali penzolava un
braccio scarnificato. Da questa testimonianza ebbe origine il
più straordinario affaire noir della città. Le
indagini poliziesche furono minuziose, ed inaugurarono nella nostra
sonnacchiosa città metodi di investigazione scientifica che
sbalordivano. Imputato del probabile duplice delitto fu, da subito,
Erminio Massa, fattore di Alberto Malmesi. Molte testimonianze
assicurarono che il fattore spadroneggiava, arrivando perfino ad
umiliare in pubblico il padrone. (l'è un
imbazèl, diceva - è un
imbecille-). La futura sposa del conte, inserviente
all'orfanotrofio cittadino e donna di polso, aveva detto chiaro e
tondo al fidanzato: caccia Erminio Massa se mi vuoi sposare. Da qui
l'odio tremendo fra i due. Il processo, seguito da
una folla enorme, si concluse il 15 dicembre 1917: il fattore venne
condannato a 24 anni di carcere con l'accusa di aver soppresso
Alberto e Dionilla e di averne occultato i cadaveri. Morirà
poche settimane più tardi, in cella, gridando sempre la sua
(improbabile) innocenza e maledicendo chi lo aveva voluto
rovinare.
In fondo a via Maroncelli svoltiamo a sinistra in
via Della Ripa arrivando così ad imboccare corso
Garibaldi. Lì dove il Corso, dopo palazzo
Manzoni e la piazzetta Melozzo, compie una piccola svolta, si
trovava anticamente il Ponte dei Morettini (dal nome di una casata
che vi aveva residenza). In quel punto, venne assassinato il
savonese Jacopo Feo (6) il 27 agosto 1495, mentre, con la
moglie Caterina Sforza (sposata in segreto) e il seguito, tornava
da una battuta di caccia. Il matrimonio con la
contessa di Forlì gli aveva dato alla testa tanto da fargli
assumere un atteggiamento così prepotente da attirare l'odio
delle famiglie nobili e non solo. Una congiura organizzata quasi
all'improvviso ne decise la morte: mentre cavalcava accanto alla
carrozza di Caterina, venne aggredito da sicari che lo aspettavano
nascosti nella riva del canale. Fu colpito a morte e lasciato sul
posto mentre i congiurati, senza un piano e senza un capo,
fuggivano. Caterina ordinò la solita
vendetta.
La sera del 26 maggio 1817, all'incirca alle 21:30, il banchiere
Domenico Manzoni(7), mentre si recava a teatro,
percorsa la via Santa Croce (ora Francesco Canestri) e giunto allo
sbocco di essa in via del Teatro (ora Goffredo Mameli); sotto il
voltone Teodoli (ora della cartoleria Monti), fu pugnalato al
ventre, morendo alle 3:30 del giorno
successivo. L'assassino non fu mai identificato,
benché fosse stato promesso un premio in danaro a chi avesse
fornito informazioni utili. Varie le ipotesi relative ai motivi
dell'uccisione. Si disse che la mano assassina' fosse stata
armata dalla fame, avendo il Manzoni speculato sul prezzo del
grano, realizzando notevolissimi profitti. Altri sospettarono che
fosse stato ucciso da un sicario assoldato dai suoi numerosi
nemici. Lo storico forlivese Oliverotto Fabretti sostiene, invece,
che Manzoni venne condannato a morte dalla vendita carbonara di
Forlì, la Vendita dell'Amaranto, a cui aveva aderito.
Successivamente se ne era staccato, legandosi al governo pontificio
al fine di meglio coltivare i propri interessi economici e per
questo andava punito.
Un altro delitto irrisolto è quello
avvenuto in via Moroni(8), stradina stretta e buia
prossima a Corso Garibaldi. Il 30 marzo 1840 fu
aggredito, mentre rincasava, Michele Placucci (1782-1840). Una
violenta coltellata gli perforò un polmone causandone la
morte, dopo un lunga agonia il 2 aprile. Placucci sembrò
aver riconosciuto il feritore ma non ne rivelò il nome.
Secondo la famiglia dell'ucciso, il colpevole sarebbe stato un
figlio illegittimo, che arrivò a tanto perché il
padre non aveva più intenzione di mantenerlo o per altri
motivi di interesse.
Assai interessante è la figura e
l'attività di Placucci: già impiegato nel 1797, a 15
anni, presso l'amministrazione napoleonica, poi funzionario
comunale pontificio, nel quale ambito salì i vari gradi
della carriera sino a divenire, negli anni '30 del secolo XIX,
Segretario capo. Fu autore di varie opere di
storia locale, ma è famoso soprattutto per la
pubblicazione di Usi e pregiudizi dè contadini della
Romagna (1818), che ne fa il fondatore (inconsapevole) degli
studi etnografici romagnoli. Il ricordo di Placucci è anche un invito a visitare il
Museo Etnografico 'B. Pergoli', uno dei primi sorto in Italia
(1922).
Tornando in corso Garibaldi voltiamo a sinistra in
via Torelli fino ad arrivare in Piazza Ordelaffi dove prendiamo via
Degli Orgogliosi arrivando così prima in Piazzetta della
Misura e poi in quella dei XC Pacifici.
Piazzetta XC (Novanta) Pacifici, la sera in cui fu
ucciso Gerolamo Riario, 18 aprile del 1488. Su
questa piazzetta, all'epoca cortile del Palazzo nel quale sorgeva
un pozzo e sul quale si affacciavano le stanze di Caterina, una
parte della folla inferocita confluì dopo la defenestrazione
del conte. Malauguratamente per lui, stava fuggendo da quella parte
il bargello Antonio da Montecchio(9), da molti
temuto ed odiato, un giovane che univa alla passione per le torture
e le esecuzioni capitali una singolare cura della
persona. Raggiunto dai rivoltosi fu subito colpito
a morte, e il suo corpo fu denudato ed i suoi bei capelli bruciati
per spregio sulla vera del pozzo, mentre Caterina Sforza gridava
dalla finestra scongiurando gli assassini di non
ucciderlo. Per sostituirlo Caterina, una volta
domata la rivolta, ricorrerà alla esperienza e alla ferocia
di Babone, al secolo Matteo da Castelbolognese, descritto dalle
cronache come orribile a vedersi, spietato esecutore delle vendette
di Madonna.
L'episodio della defenestrazione del Conte
Gerolamo Riario (10) non rappresenta che l'epilogo di una fase
politica durante la quale la città di Forlì, in tutte
le sue componenti sociali, tentò di scrollarsi di dosso una
signoria sgradita e pericolosa.
Gerolamo Riario era stato insignorito dallo zio,
Papa Sisto IV delle terre di Forlì e Imola nel 1480, ma solo
dal 1484 aveva di fatto 'preso stanza' nei suoi possedimenti di
Romagna. Inizialmente ben accolto per una drastica riduzione delle
tasse, era stato presto costretto ad imporne nuovamente, suscitando
il malcontento prima dei contadini, poi degli artigiani e infine
dei nobili.
Una lunga serie di congiure era fallita, ma infine
un gruppo di persone, tra le quali i fratelli Checco e Ludovico
Orsi, Lodovico Pansecco, Giacomo del Ronco, decisero di evocare
l'eterna lotta tra la libertà e la tirannide per motivarne
l'uccisione. Checco Orsi la sera del 14 aprile 1488
si presentò al cospetto del Conte, intento a cenare nella
Camera delle Ninfe. Ricorrendo ad un pretesto per avvicinarlo, gli
sferrò una pugnalata al ventre e subito fu raggiunto dai
complici. Una stoccata alla testa, questa volta mortale, e il
Riario giacque a terra. Nel frattempo Ludovico Orsi
in piazza incitava alla rivolta e alla libertà, cercando di
radunare gente e scatenare l'insurrezione. Superata
facilmente una prima, debole resistenza da parte dei famigliari del
Conte, Checco scese le scale con un gruppo di armati. Il corpo del
Conte fu gettato dalla finestra della sala sulla piazza, la terza
da sinistra partendo dal lato sinistro della facciata, dove venne
straziato e letteralmente fatto a pezzi. All'arrivo della folla i
soldati della guardia fuggirono, lasciando che la moglie del
Riario, Caterina Sforza, venisse catturata e condotta alle case
degli Orsi, mentre la folla si dava al saccheggio del palazzo dei
Signori.
A cura della Redazione di Turismo Forlivese, Piazza Saffi 8, 47121 Forlì - iat@comune.forli.fc.it - Tel. 0543 712362
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